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Archivio della categoria 'Iniziative'

il matrimonio di Fulgida e Valentin

30 maggio 2007 Pubblicato da roberto

E’ con grande gioia che noi di IPB-Italia festeggiamo questo grande avvenimento che ha per protagonista la nostra ex Presidente e fondatrice storica dell’associazione.
Lo facciamo pubblicando quanto Andrea Misuri ci ha offerto, la sua cronaca gioiosa della giornata passata, sabato 26 maggio…

“Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà”

Wislawa Szymborska
Taccuino d’amore, Scheiwiller

Il matrimonio di Fulgida e Valentin, un arcobaleno d’amore e di pace

“Anche nel lontano Giappone è arrivata la voce del matrimonio di Fulgida. Ti prego di accettare questo messaggio quale segno della nostra stima e nostro augurio per la tua felicità”. Quando nella Sala del Comune di Lugo sono risuonate le prime parole della lettera del sindaco di Hiroshima Tadatoshi Akiba, qualche luccicone ha inumidito gli occhi dei presenti.
Come quando all’inizio della cerimonia era stato trasmesso il video di Cora Weiss da New York. Culminato, da parte della volitiva e amata ex Presidente di International Peace Bureau, con un brindisi di Valdobbiene in onore della novella coppia.
Un ideale arcobaleno di pace per un attimo ha attraversato i continenti, unendo i presenti, a cominciare dai figli di ciascuno degli sposi, familiari e amici di una vita, oltre a quelli divenuti tali attraverso l’impegno dell’IPB-Italia. Un’associazione, fucina non soltanto di idee e di progetti, ma di forti rapporti interpersonali che hanno permesso di ritrovarci il 26 maggio in quel di Lugo.
Gli squilli delle chiarine hanno accolto Fulgida e Valentin fin dalla loro entrata in Municipio, passando sotto le lame degli schermitori schierati sulla breve salita che immette alla Rocca.
A far da corona damigelle e alfieri. Intorno i fiori sistemati da Mascia, gli altoparlanti che rimandavano le musiche scelte da Francesco e Marta. Il tutto sotto l’attenta regia di Franco, impegnato a seguire i tempi della cerimonia.

Il sindaco Raffaele Cortesi, con belle e sobrie parole ha ricordato il forte legame che IPB ha con il territorio lughese, concludendo con la consegna di una confezione di quel prezioso frutto, il cappero, che cresce salvaguardato sulle mura quattrocentesche della Rocca e leggendo una poesia d’amore di Nazim Hikmet. Susanna Agostini, delegata per Mayors for Peace del vice presidente Leonardo Domenici, ha concelebrato il matrimonio e ci ha fatto ascoltare le parole della poetessa polacca Wislawa Szymborska.
Roberto, da par suo, ha filmato l’intero evento, testimonianza indelebile della bella giornata.
Alfine, la commozione si è stemperata all’ombra degli alberi del Giardino Pensile della Rocca. Il Giardino, lì a testimoniare fin dalla fine del XVIII secolo la progressiva cancellazione delle caratteristiche castellane delle Rocca estense, si è rivelato un accogliente ritrovo. Tra bicchieri di buon vino e portate di cibo le più varie, allietati dalle musiche di Stefano e dal karaoke degli amici, abbiamo lasciato salire al cielo palloncini colorati dedicati agli sposi, mentre, fatti a mano con amore, grandi fiori di carta azzurri, rosa, gialli e verdi incorniciavano le antiche mura.

Note: Testo e foto di Andrea Misuri
Il messaggio del Mayor di Hiroshima:
Traduzione italiana - Originale in inglese

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Cronache fantasma e avvenimenti nascosti ai più…

19 maggio 2007 Pubblicato da roberto

L’ottavo colore dell’arcobaleno è il nuovo reportage-racconto-riflessione di Andrea Misuri.

E’ una cronaca quasi “fantasma”, quella degli attentati di cui Andrea Misuri dà la notizia. Certo, con lo stillicidio continuo degli orrori dall’Iraq, chi vi farebbe caso? Eppure proprio questi hanno una valenza sinistra e particolare: sono i primi, dopo anni di tranquillità, che scuotono la regione autonoma del Kurdistan, faticosamente avviata in un processo di pace e modernizzazione senza precedenti nell’area mediorientale.
Ma anche i cenni di storia, e i dettagli che Andrea racconta sulla vita e le prospettive odierne della regione, son notizie pressocché inedite ai più. Chi sa ad esempio, che proprio nell’Iraq del nord - a Erbil capitale della regione - a giugno si terrà l’ItalianExpo 2007, la prima Fiera italiana in quest’area?

In questa pagina di analisi e di ricordi, tutto questo e tanto altro. Curiosità cronache e storia anche vissuta da noi protagonisti della passata “mission” dei Sindaci dell’anno scorso.
Tutto questo ci aiuti a riflettere, a penetrare con maggiore interesse nelle vicende di popoli di cui al massimo ci vengono mostrati cliché di vita assolutamente imperfetti nella molteplicità delle culture che arricchiscono il nostro piccolo grande pianeta. Sta a noi “scavare” in profondità e con senso critico, al di là degli “scoop” e delle immagini ad effetto che i media usualmente ci propongono.

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I bambini invisibili di Haiti

1 aprile 2007 Pubblicato da roberto

Da Massimo Toschi, nostro Socio e funzionario alle Nazioni Unite, un articolo che svela notizie a noi sconosciute, da un Paese quasi dimenticato…

In questi ultimi mesi la situazione dell’infanzia nel paese sudamericano è balzata prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, per i drammatici casi di sequestri di bambini dai bus scolastici da parte di gruppi armati criminali

Massimo Toschi attualmente è impegnato a Haiti, come “Responsabile per l’infanzia Missione di Pace e di Stabilizzazione delle Nazioni Unite”

In due giorni, a metà dicembre scorso, sono stati rapiti 29 bambini (di cui 13 in un unico sequestro di uno scuolabus) per un totale di 59 casi in un solo mese, creando una situazione di panico generale nella popolazione da indurre il governo haitiano alla chiusura anticipata delle scuole a livello nazionale.

Proprio in questi giorni il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a New York ha adottato la Risoluzione n. 1743 (con cui viene rinnovato il Mandato della Missione di pace ad Haiti) nella quale, al punto 17, esprime una dura condanna delle violazioni contro i bambini nel contesto della violenza armata, e in modo particolare contro gli abusi sessuali e gli stupri di bambine.

La lista di violazioni e discriminazioni delle quali l’infanzia di Haiti è vittima è tristemente lunghissima. In modo particolare per le femmine. Come riportato dall’UNICEF nel Child Alert: Haiti, pubblicato nel marzo 2006, un bambino su quattordici non riuscirà a festeggiare il suo primo compleanno; il tasso di mortalità entro i 5 anni è 120/1.000: in altre parole un bambino ogni otto non raggiungerà i 5 anni. Un minore su sette è orfano di almeno un genitore; elemento che, combinato con la situazione di povertà che affligge il paese, fa sì che moltissimi bambini vivano in una situazione di gravissima vulnerabilità, rendendoli facile preda di sfruttatori. Come confermato dall’assurdo fenomeno - tanto assurdo da sembrare anacronistico nel 2007 a poco più di un’ora di volo dalle spiagge della Florida - dei circa 280.000 bambini restaveks, bambini in domesticità (che non è altro che una definizione addolcita per indicare la schiavitù), sfruttati nei lavori domestici e in molti casi ripetutamente picchiati e abusati sessualmente, dove, ancora una volta, sono le bambine le più colpite, rappresentando il 75% di questa cifra.

Ragion per cui molti di loro preferiscono la vita di strada. A Port-au-Prince, la capitale, si stima ci siano 2.500 bambini di strada che vivono di elemosina per guadagnarsi 20 gourdes con cui sfamarsi (meno di 50 centesimi di euro) e quindi ulteriormente vulnerabili allo sfruttamento, soprattutto sessuale, o al traffico.

Come evidenziato dalla menzionata Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, gli abusi sessuali sulle bambine hanno raggiunto livelli drammatici. Secondo uno studio pubblicato recentemente dalla Banca Mondiale si stima che il 46% delle minorenni siano state vittime di abusi sessuali domestici. A Cité Soleil e Martissant (zone della capitale colpite dalla violenza armata) molte ragazze sono state vittima di stupro, e in molti casi di stupri collettivi. L’unità per la protezione delll’infanzia di MINUSTAH ha riportato 29 casi nell’ultima settimana del mese di novembre, tra cui quello di una ragazza quindicenne vittima di uno stupro collettivo da parte di sei persone armate.

Come se non bastasse il drammatico livello di povertà che ne fa il paese più povero del continente americano, Haiti è vittima della violenza armata di alcuni gruppi responsabili del traffico della droga e di armi, sequestri, stupri e altre attività criminali e di destabilizzazione politica.

Negli ultimi anni questi gruppi si sono resi responsabili di ulteriori violazioni dei diritti dei bambini: arruolandoli come soldati e coinvolgendoli con la forza nelle file armate come messaggeri, prostitute, fino all’inumano utilizzo come scudi umani durante gli scontri a fuoco, per poi colpevolizzare i peace-keepers di eventuali vittime.

In molti casi gli autori delle violazioni e di questi atti criminali sono a loro volta minori. Tra le 21 persone arrestate a fine dicembre come responsabili dei casi dei sequestri degli scuolabus, 7 erano minorenni. Occorrerebbe tener conto che questi bambini sono stati forzati a prendere parte alle attività criminali, in molti casi minacciati a morte. A causa dell’inoperatività del sistema giudiziario minorile nazionale, la maggior parte dei ragazzi in conflitto con la legge viene dimenticata in centri di detenzione contrari ai diritti della Convenzione sui diritti dell’infanzia. Solamente a Port-au-Prince si contano 114 bambini e 29 bambine in detenzione, di cui solo 5 sono stati giudicati da un giudice minorile.

In queste ultime settimane si è verificata una significativa diminuizione del numero dei sequestri, grazie alle operazioni militari condotte dai Caschi Blu della missione di pace delle Nazioni Unite, insieme con le forze di polizia haitiane, che hanno all’arresto di alcuni responsabili dei gruppi armati criminali. Il risultato immediato è rappresentato dai colori delle divise dei bambini (ogni scuola ha le divise di un colore diverso), che ogni mattina riempiono le strade di Port-au-Prince.

Tuttavia, considerando che tra gli indicatori riportati dal menzionato Child Alert: Haiti dell’UNICEF, il 55% dei bambini ha accesso al primo ciclo scolastico, solamente il 2% finisce le scuole secondarie e circa un ragazzo su tre, tra i 15 e i 18 anni, è analfabeta, il lavoro da fare per l’infanzia dimenticata di Haiti è ancora moltissimo.

Per maggiori approfondimenti sull’infanzia di Haiti: film-documentario sui bambini soldato Les enfants perdus de Cité Soleil, visionabile su www.minustah.org; progetto sostenuto dall’UNICEF Italia ad Haiti su www.unicef.it/haiti; vedi anche www.raiclicktv.it/raiclickpc/secure/list_content.srv?id=2092#

Nota: Articolo pubblicato su http://www.unicef.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/3231

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Per un 2707 di Pace

20 marzo 2007 Pubblicato da roberto

Ecco un racconto che è un racconto di storia, e, insieme, un ricordo.
Il 21 marzo - non solo dal popolo curdo, ma presso tutti i popoli di stirpe iranica - dai tempi dei tempi si celebra il “Nuovo Giorno”, appunto, il Newroz.
Dalla penna di Andrea Misuri un articolo fresco di ricordi e antico di storia. Che immerge anche noi lettori, quasi per magia, tra i popoli e le tradizioni di quella regione dove nacque la nostra civiltà.

In queste ore, sugli spalti del Castello di Erbil, stanno bruciando i falò.

E’ il Newroz, il capodanno delle popolazioni di origine iranica, il “Nuovo Giorno”.
Oggi si entra nel 2707. Nella ricorrenza si ritrovano aspetti mitici, storici, sociali, che ne fanno un momento di forte identità per un popolo, quello curdo, da tempi immemorabili perseguitato e disperso. La diaspora curda, meno conosciuta di quella di altri popoli, se si guarda al numero di persone coinvolte è sicuramente fra le più grandi. Ben si comprende, quindi, come in questo caso, il mito abbia svolto una fondamentale funzione di coesione, legando l’origine del popolo ad eroici antenati pre-islamici.
Mi piace ricordare che del coraggio dei combattenti curdi parla già l’Anabasi di Senofonte. Una campagna militare di oltre due millenni fa, culminata nella effimera vittoria di Cunassa (401 a.C.) in cui Ciro il giovane trovò la morte, e in una faticosissima ritirata di migliaia di chilometri. I 10.000 opliti greci, mercenari al servizio di Ciro, spintisi fino all’odierna Baghdad, tornarono indietro, cercando di raggiungere le lontane rive del Mar Nero (sorvoliamo sulle possibili analogie con la storia attuale). Accadde dunque che i fuggiaschi attraversarono il territorio dei Curdi, noti come Caduchi, che “vivevano sulle montagne ed erano un popolo bellicoso, che rifiutava di obbedire al re” (Anabasi, III, 5, 16). Certamente, un incontro per niente amichevole. Anche Marco Polo, tanti secoli dopo, descrive i Curdi come “tristi e bellicosi”.
Ma torniamo agli antenati della tradizione. E’ il poema epico “Il Libro dei Re” di Firdusi, del X secolo d.C., che racconta la genesi culturale dei popoli iranici. E’ leggendo queste pagine, peraltro bellissime, poetiche, ricche di notizie sulla vita quotidiana in quelle epoche antiche, che possiamo riavvolgere il filo del tempo, conoscere eventi fantastici collocati in un passato molto remoto.
Si favoleggia che il despota Dahak avesse sulle spalle due serpenti che ogni giorno si nutrivano con il cervello di due giovani curdi. Ma il servitore che doveva uccidere i fanciulli, preso da pietà, ogni giorno ne uccideva uno soltanto, sostituendo il cervello dell’altro con quello di una pecora. I giovani sopravvissuti si rifugiarono sulle montagne. Così nacque il popolo curdo, “gli uomini delle montagne”.
Un giorno, Kawa un umile fabbro ferraio d’Isphahan (nell’attuale Iran), il cui figlio doveva essere dato in pasto ai serpenti, trovò il coraggio di opporsi al tiranno. Kawa prese il suo grembiule di cuoio e lo issò su di un asta, facendone la bandiera che avrebbe guidato gl’insorti. I fuochi accesi sulle montagne sarebbero stati il segnale della rivolta. Fu richiamato il legittimo discendente regale, il giovane Fredun. La popolazione, guidata da Kawa, rovesciò la dittatura.
Fredun catturò Dahak e lo portò sulla catena montuosa di Alborz, e lo legò in catene sulla sua cima, Damavand. Ancor oggi Damavand svetta alta verso il cielo, con i suoi oltre 5.000 metri, a nord-est di Tehran. La sua punta, perennemente coperta di neve, è visibile da ogni angolo della città. Lo sviluppo urbanistico, ormai, ne lambisce i primi contrafforti, indifferente alle leggende raccolte dal poeta Firdusi. Attualmente, sul Davamand, al campo base di Goosfand Sara (La dimora delle pecore) e al rifugio di Bazrgah-e-Sevom (Terzo color grano), quando la stagione lo permette, s’incontrano esperti scalatori, che si stanno acclimatando alla quota, in attesa della salita finale.
Abbiamo visto come il grembiule di Kawa fosse diventato il vessillo della rivolta. Un oggetto semplice, di uso quotidiano, assurgeva così a punto di riferimento di un popolo oppresso. Insieme al fuoco, da sempre indispensabile a forgiare gli oggetti nelle botteghe dei fabbri e divenuto simbolo della lotta al crudele Dahak. Quello stesso fuoco che da tempo immemorabile veniva acceso in luoghi diversi, prima dell’alba dell’equinozio di primavera, dalle antiche popolazioni. Quel fuoco con cui si usava venerare Mazda, il dio di cui Zaratustra era il profeta, prima che i curdi si convertissero all’Islam, quando entrarono a far parte dell’Impero Ottomano, nel VII secolo d.C.

La leggenda di Kawa, in realtà, trova un radicamento nella storia. Con un riferimento preciso alla vittoria dei Medi sugli Assiri e la distruzione della loro città più bella, Ninive.

Ninive si trovava vicino all’attuale Mossul. Lungo il Tigri, crocevia di comunicazione fondamentale sulla via che univa l’Oriente ai Paesi che si affacciavano sulle rive del Mediterraneo.
Quartieri residenziali si alternavano ai templi. Lungo le possenti mura che chiudevano la città, furono costruite diciotto grandi porte, a guardia delle quali furono poste gigantesche statue di tori dalla barba riccia, guardiani che incutevano timore ai visitatori.
Ninive raggiunse a quel tempo i 120.000 abitanti, gran parte dei quali importati a forza dalle città nemiche distrutte. Un numero impressionante per l’epoca. Nel racconto biblico di Giona è chiamata la città “dei tre giorni di viaggio”, ad indicare la sua grandezza.
I re assiri che si succedettero portarono avanti una politica di conquista nei confronti di popoli anche lontani dalle loro terre: Caldei, Filistei, Cimmeri, Mannei, Sciti, Medi. Nessuno si poteva considerare al sicuro dalla voglia di conquista degli Assiri. Fu invaso l’Egitto. Poi toccò al regno di Elam. Furono sconfitti gli Arabi, alleati di Babilonia, la grande nemica. La mitica Babilonia fu completamente distrutta. E con lei, quella Torre di Babele, simbolo della presunzione dell’uomo.
Nel 612 a. C. un’alleanza tra i Medi del re Ciassare e i Babilonesi del re Nabopolassar portò all’assedio di Ninive. Durò tre mesi. Troppo estesa la città, troppe le porte da proteggere. L’alleanza contro il comune nemico aveva permesso di raccogliere un gran numero di assedianti che sconfissero gli Assiri. La lunga oppressione era terminata.
Da quell’anno decorre il calendario dei Curdi, con ogni probabilità discendenti dei Medi, che si erano mescolati con la popolazione autoctona che abitava quei territori.

Il Newroz si festeggia in Irak, Iran, Pakistan, Afghanistan, oltre che in alcune regioni dell’India e della Cina abitate da minoranze iraniche. Questo non succede in Turchia, dove la ricorrenza coincide ormai, da molti anni, con una stretta sorveglianza dei militari e con dure repressioni della popolazione curda. Il Newroz diviene occasione d’identità. Il segnale annunciato di un malessere, di un desiderio di libertà pericolosi per il potere. L’atteggiamento delle autorità ha fatto sì che per il 21 marzo, nel Kurdistan turco, ogni anno, arrivano numerosi osservatori internazionali.

Alle prime luci dell’alba, i fuochi sugli spalti del Castello di Erbil si vedono da ogni angolo della città, a ricordare la rivolta del fabbro Kawa.
Da lassù, vicino ai falò, il bazar sottostante si estende a perdita d’occhio. Dagli spalti, illuminati dal riverbero delle lingue di fuoco, sembra quasi di percepire i profumi e gli odori che fra poco usciranno dalle mille botteghe sottostanti. Le grida dei venditori che si mescoleranno, inseguendosi, a quelle dei compratori intenti a mercanteggiare sul prezzo.
Intanto, la città si sveglia al “nuovo giorno” di festa. Lunghe colonne di auto e di mezzi d’ogni sorta prendono la strada che a nord di Erbil s’allunga verso la campagna: un rettilineo infinito, sorvegliato, a intervalli regolari, da gruppi di soldati. Sorridono, scambiando saluti e parole con le famiglie festanti.
Il Newroz è anche occasione per capire meglio il ruolo della donna nella società. Ruolo e libertà decisamente maggiori rispetto a quelle di altri Paesi islamici. Un aspetto, questo, della società curda, già evidenziato dai viaggiatori occidentali nei secoli passati. Lo si può vedere dagli abiti indossati dalle donne in questo giorno di festa. Abiti dai colori vivaci, che non nascondono la femminilità. Lo si nota dalle danze popolari, spesso di donne e uomini insieme, accompagnate da una musica coinvolgente. Danze che vanno avanti per ore, sui prati, fermandosi e ripartendo in un incessante inno alla voglia di vivere. Tenendosi per mano, o per le braccia, eseguono girotondi dalle tante varianti. Queste danze rappresentano un aspetto importante della vita sociale.

Mi fa piacere pensare che in queste ore, a Erbil, a Sulaymanya, a Halabja, a Balessan, a Chamchamal, ma anche a Baghdad, come in Canada e in Italia, gli amici che abbiamo conosciuto stanno festeggiando. Ballando e cantando le canzoni della tradizione, mangiando kebab, kifta e yogurt sulle tovaglie apparecchiate sui prati, guardando i fuochi che bruciano sulle colline, a simboleggiare l’antica voglia di libertà di un popolo.
Kareem, Ara, Muhamad, Hero, Dana, Shreein, Mahtab, così come Gulala, Nadhim e Rashid, che il 2707 possa essere per voi, per noi e per tutti un anno davvero “nuovo” di pace ed amicizia.

Nota: L’articolo (corredato di foto) è pubblicato anche nel sito di Peacelink.

Articolo correlato:
Newroz: Il primo giorno della primavera nel segno dell’amicizia e della solidarietà.

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Progetto “Tutti insieme”. “Lezioni di pace” dal carcere di Forlì

12 febbraio 2007 Pubblicato da roberto

Unitamente al Presidente Salvatore Favati e alla Direttrice del Carcere di Forli’ Rosa Alba Casella abbiamo deciso di pubblicare sul nostro sito questa relazione corredata dal manifesto finale.

La serie delle lezioni di Pace del Progetto Pilota Sperimentale dedicato alle carceri sta volgendo al termine. Abbiamo allora provveduto ad intervistare i singoli detenuti che hanno frequentato questo “Corso” al fine di avere una verifica incrociata degli esiti.

RELAZIONE FINALE
PROGETTO”TUTTI INSIEME”

“Lezioni di Pace”

  • Dott.ssa Dominici Arianna – IPB-Student group Facoltà di criminologia coordinatrice del progetto
  • Dott. Manenti Bartolomeo - IPB-Student group Facoltà di criminologia esperto
  • P.E. Gemignani Gabriele – IPB-Student group tecnico strumentazioni audio-video
  • Gianandrea Barattoni – Assistente strumentazioni audio-video
  • Dott.ssa Barattoni Fulgida – Tutor esperto e responsabile del progetto per IPB-Italia

Dopo un primo iniziale approccio di IPB-Italia con il mondo delle carceri, al quale aveva esteso l’invito a partecipare al bando di concorso letterario internazionale “Una favola per la pace” in una lettura allargata, completa, non escludente di Società Civile che insieme si costruisce la propria pace, questo progetto sperimentale pilota di “Lezioni di Pace” rivolto ai detenuti delle carceri è stato inserito nei programmi di peace education di IPB-Italia, è stato ideato progettato e voluto con grande determinazione da un gruppo di studenti della facoltà universitaria di Criminologia D.ssa Arianna Dominici e Bartolomeo Manenti che grazie alla ampia disponibilità della direttrice della Casa Circondariale di Forlì D.ssa Rosa Alba Casella e al suo prezioso staff di pedagogisti ne hanno reso possibile la realizzazione e ne condividono le risultanze.

Il corso ha avuto inizio il 28 di ottobre e si conclude il 9 di dicembre.

DIDATTICA

Inizialmente si è valutato di adottare un approccio didattico che consentisse da un lato un avvicinamento alle tematiche che saremmo andati ad approfondire durante il corso e dall’altro permettesse di abbattere il più velocemente possibile le barriere di diffidenza e separazione fra “noi” operatori e “loro” i detenuti.

Trattandosi di un progetto pilota sperimentale si è preferito adottare una didattica “working in progress” flessibile capace di essere adattata e modellata di volta in volta al gruppo di lavoro piuttosto che una “scaletta didattica programmata”.

Alcune lezioni sono state condotte a corpo unico mentre altre hanno visto i detenuti suddividersi in gruppi di lavoro ai quali venivano attribuiti temi di approfondimento diversi fra loro ma con lo scopo di elencare i punti di vista di ogni singolo componente per poi cercare di estrapolare alla fine una sintesi di quanto prodotto che rappresentasse il “meglio” e “utile” per tutti.

La formazione dei gruppi di lavoro veniva realizzata sulla base del criterio delle “diversità” dove ogni gruppo doveva essere il più diversificato possibile.

TECNICHE ADOTTATE

Mix and Mash integrato: Tutti gli incontri si sono svolti secondo la tecnica del “Mix and Mash integrato”. Si lavorava ad un unico tavolo attorno al quale i detenuti prendevano posto assieme agli operatori che si mescolavano fra di loro con il compito ogni volta di promuovere il dialogo e soprattutto di instaurare con il “compagno di banco” un rapporto interpersonale umano, cordiale, non confidente mirato a far si che ognuno si sentisse parte integrante del gruppo con la consapevolezza che “si stava lavorando insieme” e dove il contributo di ogni singolo andava a costituire parte essenziale del lavoro collettivo.

La presenza di detenuti molto diversificati fra loro in termini di provenienza, cultura, religione, esperienza esistenziale, ecc. ha rappresentato un elemento molto importante nel conseguimento degli obiettivi che gli operatori del corso si prefiggevano.

Simbolismo: per favorire ulteriormente il modello di lavoro integrato che si voleva impostare è stato fatto uso di tecniche di comunicazione “non verbale” e strumenti simbolici elementari quali l’abitudine ad inserire nelle lezioni una “merenda insieme” per lo più fatta di dolcetti di pasticceria col richiamo simbolico all’ Agape (termine indicante il banchetto in comune dei primi cristiani animato dall’amore fraterno, nel quale si divideva insieme il pane–dal greco Agapos=amore favorendo lo svilupparsi nel gruppo di uno spirito cameratesco di compagni – dal greco *****-Panes=coloro che si dividono il pane). La merenda insieme ha costituito senza dubbio il passaggio simbolico più importante e dalla efficacia aggregante più evidente. Il gesto di dividere i pasticcini a metà perché altrimenti non sarebbero stati sufficienti per tutti ha costituito senza dubbio un ancoraggio simbolico per quanto inconscio ma acquisito da tutti con grande naturalezza e che ha consentito nel prosieguo delle lezioni il sentirci VERAMENTE sui temi della pace tutti uguali, tutti insieme, tutti uomini di buona volontà.

Le lezioni erano iniziate con l’uso rispettoso del “Lei” e degli appellativi di Signora Professoressa, oppure Signora dottoressa e si sono concluse con un sempre rispettoso ma più sciolto e cordiale uso dell’ironia e di benevoli prese in giro, dai toni quasi amichevoli, sempre controllate e a volte acutamente pilotate dagli operatori.

Capo Gruppo: Rimarchevole e forse anche fondamentale nella gestione del gruppo di lavoro è stato il contributo del detenuto Manuel S. che sin da subito si è identificato quale leader naturale collettivamente riconosciuto da tutti. Al fine di fare in modo che sin da subito a tutti i detenuti potessero avere una percezione di una gestione del gruppo su basi di equità, tutti insieme, abbiamo deciso di nominare, di volta in volta, per consensus, un “Capo Gruppo” che fosse sempre diverso, il quale, indossando la maglietta dell’IPB-Italia, assumeva il compito di tenere compatto il gruppo, curarne la presenza alle lezioni successive, stimolare la partecipazione di altri detenuti al corso e, quando possibile, ne parlasse con gli altri detenuti, compagni di cella e non. Anche se era stato inizialmente richiesto di lavorare con un gruppo fisso, di fatto, abbiamo ritenuto positivo tenere aperta la frequenza alle lezioni e questo ci ha consentito di inglobare di volta in volta sempre elementi nuovi.

Come sempre avviene ci sono stati anche dei detenuti che non hanno trovato il tenore delle nostre lezioni di loro interesse ma in linea di massima possiamo dire che il Corso delle lezioni di pace è partito con un gruppo di circa 10 detenuti che si sono via via consolidati, affiatati e che hanno frequentato tutte le lezioni con dimostrato interesse e attiva partecipazione.

Regole: Sempre per consensus il gruppo si e’ dotato sin da subito delle seguenti regole di lavoro:

1. Non si parla né di politica né di religione
2. Si esporre la bontà delle proprie idee a bassa voce, con calma, stando seduti
3. Nelle valutazioni tenere conto che forse anche l’altro ha ragione, forse io ho ragione e che spesso, nessuno ha torto.

Sistema di valori: Prima di dare inizio ai lavori si è reso necessario individuare un sistema di valori di riferimento indispensabile per riuscire a mettere a massimo frutto ogni minuto del tempo che ci era stato concesso. Trattandosi di un punto molto importante all’individuazione del sistema di valori è stata dedicata una intera lezione, durante la quale tutti i detenuti si sono espressi dibattendo con grande vivacità su un unico tema: “come dialogare con chi è diverso”.

Nella gestione dei gruppi una delle cose che l’operatore si trova a mettere in atto è la valorizzazione delle specificità di ogni singolo partecipante. Queste specificità si evidenziano naturalmente in corso d’opera e pertanto ogni lezione richiedendo specificità differenti ha consentito a molti detenuti di condurre e orientare i lavori generali del gruppo, si potrebbe arrivare a dire che ogni lezione porta una firma di uno o più detenuti e qui non posso non segnalare il detenuto Hamidi N. che è arrivato alla penultima lezione, si è accomodato fra di noi molto timidamente e se ne stava silenzioso fino al momento in cui ci siamo apprestati a di trarre le conclusioni dei nostri lavori allora Hmidi Rajid ha preso la parola e ci ha letto una sua composizione che tutti hanno ascoltato in grande silenzio non fosse altro perché sintetizzava tutti i concetti da noi trattati durante tutte le lezioni. Concordemente all’unanimità tutti abbiamo condiviso i contenuti del testo letto da Hamidi N. e abbiamo deciso di adottarlo quale nostro “manifesto” finale del corso.

Nella individuazione del sistema di valori è stato fondamentale il contributo di Giampaolo A. che con grande capacità di sintesi da tutti gli interventi che avevano percorso il nostro tavolo di dibattito individuava quale sistema di valori da adottare per la conduzione dei nostri lavori il seguente:

1. tolleranza
2. umiltà
3. altruismo (inteso come gestione della Polis)

CONCLUSIONI

Queste conclusioni sono scritte a 26 mani e sono la risultante delle interviste individuali fatte con ogni singolo detenuto.

Il “manifesto” di Hamidi N. adottato dal gruppo di lavoro e approvato da tutti all’unanimità rappresenta la risultante formativa del corso.

Dalle interviste si evince il desiderio di dare continuità a questo modello di incontri dove origine e fine sono incidenti rispetto al percorso. (la tematica in discussione e lo scopo chele lezioni si prefiggono risultano essere secondarie rispetto alla esperienza del percorso insieme)

Gli studenti di IPB Student Group della Facoltà Universitaria di Criminologia valuteranno la eventualità di sottoporre all’approvazione del proprio Comitato Scientifico la possibilità di realizzare una seconda fase per il perfezionamento e consolidamento di questo primo progetto pilota sperimentale.

Poiché tutti i lavori si sono svolti sotto il paradigma “Ovunque nel mondo, oltre ogni differenza di razza, di religione, di cultura, la Società Civile (legittima depositaria del principio democratico della sovranità) è composta da madri, mariti, nonni e tutti desiderano una unica cosa, vedere crescere i loro bambini, potere offrire alle generazioni a venire un futuro senza la paura, IN PACE” , ai detenuti che hanno figli a casa sono state consegnate delle magliette di IPB-Italia nelle diverse taglie da bimbo.

Nota:

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