Ecco un racconto che è un racconto di storia, e, insieme, un ricordo.
Il 21 marzo - non solo dal popolo curdo, ma presso tutti i popoli di stirpe iranica - dai tempi dei tempi si celebra il “Nuovo Giorno”, appunto, il Newroz.
Dalla penna di Andrea Misuri un articolo fresco di ricordi e antico di storia. Che immerge anche noi lettori, quasi per magia, tra i popoli e le tradizioni di quella regione dove nacque la nostra civiltà.
In queste ore, sugli spalti del Castello di Erbil, stanno bruciando i falò.
E’ il Newroz, il capodanno delle popolazioni di origine iranica, il “Nuovo Giorno”.
Oggi si entra nel 2707. Nella ricorrenza si ritrovano aspetti mitici, storici, sociali, che ne fanno un momento di forte identità per un popolo, quello curdo, da tempi immemorabili perseguitato e disperso. La diaspora curda, meno conosciuta di quella di altri popoli, se si guarda al numero di persone coinvolte è sicuramente fra le più grandi. Ben si comprende, quindi, come in questo caso, il mito abbia svolto una fondamentale funzione di coesione, legando l’origine del popolo ad eroici antenati pre-islamici.
Mi piace ricordare che del coraggio dei combattenti curdi parla già l’Anabasi di Senofonte. Una campagna militare di oltre due millenni fa, culminata nella effimera vittoria di Cunassa (401 a.C.) in cui Ciro il giovane trovò la morte, e in una faticosissima ritirata di migliaia di chilometri. I 10.000 opliti greci, mercenari al servizio di Ciro, spintisi fino all’odierna Baghdad, tornarono indietro, cercando di raggiungere le lontane rive del Mar Nero (sorvoliamo sulle possibili analogie con la storia attuale). Accadde dunque che i fuggiaschi attraversarono il territorio dei Curdi, noti come Caduchi, che “vivevano sulle montagne ed erano un popolo bellicoso, che rifiutava di obbedire al re” (Anabasi, III, 5, 16). Certamente, un incontro per niente amichevole. Anche Marco Polo, tanti secoli dopo, descrive i Curdi come “tristi e bellicosi”.
Ma torniamo agli antenati della tradizione. E’ il poema epico “Il Libro dei Re” di Firdusi, del X secolo d.C., che racconta la genesi culturale dei popoli iranici. E’ leggendo queste pagine, peraltro bellissime, poetiche, ricche di notizie sulla vita quotidiana in quelle epoche antiche, che possiamo riavvolgere il filo del tempo, conoscere eventi fantastici collocati in un passato molto remoto.
Si favoleggia che il despota Dahak avesse sulle spalle due serpenti che ogni giorno si nutrivano con il cervello di due giovani curdi. Ma il servitore che doveva uccidere i fanciulli, preso da pietà, ogni giorno ne uccideva uno soltanto, sostituendo il cervello dell’altro con quello di una pecora. I giovani sopravvissuti si rifugiarono sulle montagne. Così nacque il popolo curdo, “gli uomini delle montagne”.
Un giorno, Kawa un umile fabbro ferraio d’Isphahan (nell’attuale Iran), il cui figlio doveva essere dato in pasto ai serpenti, trovò il coraggio di opporsi al tiranno. Kawa prese il suo grembiule di cuoio e lo issò su di un asta, facendone la bandiera che avrebbe guidato gl’insorti. I fuochi accesi sulle montagne sarebbero stati il segnale della rivolta. Fu richiamato il legittimo discendente regale, il giovane Fredun. La popolazione, guidata da Kawa, rovesciò la dittatura.
Fredun catturò Dahak e lo portò sulla catena montuosa di Alborz, e lo legò in catene sulla sua cima, Damavand. Ancor oggi Damavand svetta alta verso il cielo, con i suoi oltre 5.000 metri, a nord-est di Tehran. La sua punta, perennemente coperta di neve, è visibile da ogni angolo della città. Lo sviluppo urbanistico, ormai, ne lambisce i primi contrafforti, indifferente alle leggende raccolte dal poeta Firdusi. Attualmente, sul Davamand, al campo base di Goosfand Sara (La dimora delle pecore) e al rifugio di Bazrgah-e-Sevom (Terzo color grano), quando la stagione lo permette, s’incontrano esperti scalatori, che si stanno acclimatando alla quota, in attesa della salita finale.
Abbiamo visto come il grembiule di Kawa fosse diventato il vessillo della rivolta. Un oggetto semplice, di uso quotidiano, assurgeva così a punto di riferimento di un popolo oppresso. Insieme al fuoco, da sempre indispensabile a forgiare gli oggetti nelle botteghe dei fabbri e divenuto simbolo della lotta al crudele Dahak. Quello stesso fuoco che da tempo immemorabile veniva acceso in luoghi diversi, prima dell’alba dell’equinozio di primavera, dalle antiche popolazioni. Quel fuoco con cui si usava venerare Mazda, il dio di cui Zaratustra era il profeta, prima che i curdi si convertissero all’Islam, quando entrarono a far parte dell’Impero Ottomano, nel VII secolo d.C.
La leggenda di Kawa, in realtà, trova un radicamento nella storia. Con un riferimento preciso alla vittoria dei Medi sugli Assiri e la distruzione della loro città più bella, Ninive.
Ninive si trovava vicino all’attuale Mossul. Lungo il Tigri, crocevia di comunicazione fondamentale sulla via che univa l’Oriente ai Paesi che si affacciavano sulle rive del Mediterraneo.
Quartieri residenziali si alternavano ai templi. Lungo le possenti mura che chiudevano la città, furono costruite diciotto grandi porte, a guardia delle quali furono poste gigantesche statue di tori dalla barba riccia, guardiani che incutevano timore ai visitatori.
Ninive raggiunse a quel tempo i 120.000 abitanti, gran parte dei quali importati a forza dalle città nemiche distrutte. Un numero impressionante per l’epoca. Nel racconto biblico di Giona è chiamata la città “dei tre giorni di viaggio”, ad indicare la sua grandezza.
I re assiri che si succedettero portarono avanti una politica di conquista nei confronti di popoli anche lontani dalle loro terre: Caldei, Filistei, Cimmeri, Mannei, Sciti, Medi. Nessuno si poteva considerare al sicuro dalla voglia di conquista degli Assiri. Fu invaso l’Egitto. Poi toccò al regno di Elam. Furono sconfitti gli Arabi, alleati di Babilonia, la grande nemica. La mitica Babilonia fu completamente distrutta. E con lei, quella Torre di Babele, simbolo della presunzione dell’uomo.
Nel 612 a. C. un’alleanza tra i Medi del re Ciassare e i Babilonesi del re Nabopolassar portò all’assedio di Ninive. Durò tre mesi. Troppo estesa la città, troppe le porte da proteggere. L’alleanza contro il comune nemico aveva permesso di raccogliere un gran numero di assedianti che sconfissero gli Assiri. La lunga oppressione era terminata.
Da quell’anno decorre il calendario dei Curdi, con ogni probabilità discendenti dei Medi, che si erano mescolati con la popolazione autoctona che abitava quei territori.
Il Newroz si festeggia in Irak, Iran, Pakistan, Afghanistan, oltre che in alcune regioni dell’India e della Cina abitate da minoranze iraniche. Questo non succede in Turchia, dove la ricorrenza coincide ormai, da molti anni, con una stretta sorveglianza dei militari e con dure repressioni della popolazione curda. Il Newroz diviene occasione d’identità. Il segnale annunciato di un malessere, di un desiderio di libertà pericolosi per il potere. L’atteggiamento delle autorità ha fatto sì che per il 21 marzo, nel Kurdistan turco, ogni anno, arrivano numerosi osservatori internazionali.
Alle prime luci dell’alba, i fuochi sugli spalti del Castello di Erbil si vedono da ogni angolo della città, a ricordare la rivolta del fabbro Kawa.
Da lassù, vicino ai falò, il bazar sottostante si estende a perdita d’occhio. Dagli spalti, illuminati dal riverbero delle lingue di fuoco, sembra quasi di percepire i profumi e gli odori che fra poco usciranno dalle mille botteghe sottostanti. Le grida dei venditori che si mescoleranno, inseguendosi, a quelle dei compratori intenti a mercanteggiare sul prezzo.
Intanto, la città si sveglia al “nuovo giorno” di festa. Lunghe colonne di auto e di mezzi d’ogni sorta prendono la strada che a nord di Erbil s’allunga verso la campagna: un rettilineo infinito, sorvegliato, a intervalli regolari, da gruppi di soldati. Sorridono, scambiando saluti e parole con le famiglie festanti.
Il Newroz è anche occasione per capire meglio il ruolo della donna nella società. Ruolo e libertà decisamente maggiori rispetto a quelle di altri Paesi islamici. Un aspetto, questo, della società curda, già evidenziato dai viaggiatori occidentali nei secoli passati. Lo si può vedere dagli abiti indossati dalle donne in questo giorno di festa. Abiti dai colori vivaci, che non nascondono la femminilità. Lo si nota dalle danze popolari, spesso di donne e uomini insieme, accompagnate da una musica coinvolgente. Danze che vanno avanti per ore, sui prati, fermandosi e ripartendo in un incessante inno alla voglia di vivere. Tenendosi per mano, o per le braccia, eseguono girotondi dalle tante varianti. Queste danze rappresentano un aspetto importante della vita sociale.
Mi fa piacere pensare che in queste ore, a Erbil, a Sulaymanya, a Halabja, a Balessan, a Chamchamal, ma anche a Baghdad, come in Canada e in Italia, gli amici che abbiamo conosciuto stanno festeggiando. Ballando e cantando le canzoni della tradizione, mangiando kebab, kifta e yogurt sulle tovaglie apparecchiate sui prati, guardando i fuochi che bruciano sulle colline, a simboleggiare l’antica voglia di libertà di un popolo.
Kareem, Ara, Muhamad, Hero, Dana, Shreein, Mahtab, così come Gulala, Nadhim e Rashid, che il 2707 possa essere per voi, per noi e per tutti un anno davvero “nuovo” di pace ed amicizia.
Nota: L’articolo (corredato di foto) è pubblicato anche nel sito di Peacelink.
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