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Conclusa la visita in Italia del sindaco di Halabja

9 ottobre 2006 Pubblicato da roberto

Si è conclusa la visita in Italia di Khadr Kareem, sindaco di Halabja, cittadina del Kurdistan iracheno tristemente ricordata per il bombardamento con armi chimiche operato da Saddam Hussein nel 1988.
Il Sindaco, assieme a un rappresentante dei sopravvissuti alla strage, ha partecipato a numerosi eventi: il 1 ottobre scorso a Marzabotto, alla celebrazione del 62° anniversario dell’eccidio nazista; a colloqui in Firenze, mirati a possibili progetti di bonifica dei terreni tuttora contaminati, con la direttrice dell’ARPAT, l’agenzia per la protezione ambientale della Toscana; ed è stato ospite anche del Comune di Campi Bisenzio, prima di presenziare nella giornata del 7 ottobre, a Lugo di Romagna alla “Festa delle favole”, spettacolo di premiazione del concorso “Una favola per la pace”.
Khadr Kareem è stato il primo sindaco iracheno ad avere aderito alla Campagna mondiale “Mayors for Peace”, creata nel 1982 dai sindaci di Hiroshima e Nagasaki e che ha come scopo la sensibilizzazione e l’adozione di azioni concrete per l’abolizione completa delle armi di distruzione di massa.
Fondamentale in questo è stato il ruolo di IPB-Italia, l’ufficio italiano dell’International Peace Bureau di Ginevra, che oltre ad avere promosso la Campagna tra i sindaci del nostro territorio, ha al suo attivo la recente adesione di diversi sindaci iracheni delle varie etnie. Con essi sarà possibile attivare, nel medio periodo e in collaborazione con altre organizzazioni e fondazioni, iniziative di peace education e di recupero della legalità, che si affiancano ad altri progetti umanitari, più mirati all’emergenza sanitaria. E’ utile rammentare che di tutto questo si è discusso, assieme a rappresentanti istituzionali italiani e iracheni, nel passato convegno di Pianosa dell’agosto scorso “Insieme per la ricostruzione dell’Iraq”.
Nota: Vedi anche:
A Pineto degli Abruzzi: la delegazione del Kurdistan ha incontrato il sindaco Monticelli
Conclusa la visita in Italia del primo “sindaco per la pace” iracheno
Marzabotto 1944, Halabja 1988.

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I quattrocentonovantanove zainetti di Halabja

20 settembre 2006 Pubblicato da roberto

Questo è l’ultimo della serie di reportages scritti a Andrea Misuri, nostro socio e “compagno di viaggio” nella missione di pace nel Kurdistan iracheno.
E’ un sunto dei ricordi e degli incontri che a distanza di mesi si affaccia ancora nella mente di noi “reduci”; il tutto nel suo stile vivace e discorsivo.

L’arrivo
L’aeroporto di Erbil appare attraverso l’oblò. Le ombre della notte lasciano il posto ai barlumi del nuovo giorno. Sotto di noi, la lunga striscia di cemento. Intervallata dalle luci, che nelle nebbie sottilissime del primo mattino indicano il percorso al pilota. Identica alle piste degli aeroporti di tutto il mondo.
L’orologio segna ancora l’ora di Roma, le 3,30. Eravamo partiti da Francoforte. Aeroporto immenso e labirintico, deserto per l’ora notturna. Lo avevamo percorso a passo sempre più svelto, trascinandoci il bagaglio sulle valigie a rotelle. Eravamo entrati direttamente nella pancia dell’aereo della Kurdistan Airlines.
Quattro ore dopo, le ruote dell’aereo toccano terra. La maggior parte dei passeggeri sono curdi che tornano a casa. Molte le coppie con i piccoli. Le donne indossano vestiti eleganti, dai colori accesi. Gli uomini vestono all’occidentale. Solo qualcuno ha già l’abito della tradizione. Ampi pantaloni e casacche strette in vita da una lunga fascia di cotone, indossati con eleganza e naturalezza insieme.
Mi affaccio alla scaletta e sento prendermi da un’euforia controllata. Mi ricordo di quando, molto tempo fa, a vent’anni o poco più, ho girato tanti Paesi. Ben sapendo, da allora, che il vero viaggio è sempre quello dentro di noi. Alla ricerca delle nostre parti insondabili, a noi stessi sconosciute.
Certo che avrei nuovamente vissuto sensazioni forti.
Scendo gli scalini e m’avvio con i compagni di viaggio verso la palazzina ad un piano che vediamo davanti a noi. Sormontata dalla scritta Erbil International Airport.
Si forma una lunga coda. Problemi sui visti. I doganieri svolgono il loro lavoro con grande attenzione. Oltre al bagaglio personale, ingombriamo la piccola sala dell’aeroporto con le sedici grandi scatole contenenti gli zainetti par i bambini della scuola Marzabotto di Halabja. Alfine si esce. Il sole già sull’orizzonte. Intorno la pianura brulla, interrotta, qua e là, da costruzioni basse, puntini lontani disposti casualmente a riempire lo spazio.

Buona lettura!

Il primo automezzo che vediamo ha, incredibilmente, la targa di Firenze. Un vecchio Ford Transit bianco.
Piero, simpatico e dai modi diretti, è il conducente. Dopo la presentazione cominciamo a parlare. Come vecchi amici che si ritrovano nel loro peregrinare. Con lui, Omar, un curdo che ha studiato a Bologna, dal perfetto accento italiano, si rivelerà utile guida per conoscere il Kurdistan.
Piero è di Porretta Terme. Paese, un tempo, di dura terra lavorata e d’emigrazione. Era partito da lì quattro giorni prima. Sarebbero rimasti con noi alcuni giorni, prima di scendere a sud, cercando di raggiungere Baghdad.
Incontriamo i referenti istituzionali. Tra loro, il sindaco di Halabja Khadir Kareem Mohammed.
Presto sarà a Firenze, invitato dal sindaco Leonardo Domenici vice presidente della Mayor for Peace. Khadir, il primo sindaco iracheno ad iscriversi alla Mayor for Peace. Sindaci che hanno a cuore il futuro delle comunità che rappresentano.
Prendiamo posto sul pulmino, un vecchio Mercedes, che ci accompagnerà, sbuffante e ansimante, per le strade del Kurdistan.

I primi incontri
Il primo appuntamento istituzionale è alla sede del Parlamento.
Un lungo muro di cinta. All’entrata, blocchi di cemento obbligano l’autista a zigzagare prima di fermarsi alla garitta. Giovani in armi, i kalashnikov a tracolla, autorizzano il passaggio. Entriamo nel Palazzo. Al centro dell’ampio salone l’enorme ritratto di Mustafà Barzani, fra le bandiere del Kurdistan. Al centro il sole che irradia i suoi raggi, a sovrapporsi ai colori bianco rosso e verde disposti orizzontalmente. Ai lati due guardie in alta uniforme.
Dietro, due scaloni semicircolari si congiungono in alto.
Da lì si entra nello studio di Adnan Al-Mufti Presidente del Parlamento. Poco più che cinquantenne, uomo che suscita rispetto e ispira simpatia.
Saprò poi che ha passato la maggior parte della vita nella lotta partigiana. E’ a persone come quella che ho di fronte, che ha pensato Sherko Bekas, il maggior poeta vivente curdo, quando scrive

”La lotta, da noi, Laura, inizia dalla culla
e va fino alla tomba. E’ avvinghiata al nostro corpo, Laura.
Pane e dolore mangiamo tutti i giorni, insieme alla nostra lotta, Laura.
Dormiamo più tempo con la lotta,
che con le nostre donne, Laura,
viviamo più tempo con la lotta che con i nostri figli, Laura.
Ma, Laura, Laura, il mio Kurdistan,
il mio Kurdistan
tu non dimenticare il Kurdistan.”

L’autore ha trascorso molti anni in esilio. Ora vive a Sulaymanya.

Durante l’incontro con Al-Mufti, parlo delle motivazioni che ci hanno spinto a venire fin qui. Di Firenze città portatrice di pace, da sempre aperta ai viaggiatori di ogni Paese. E’ con emozione che appunto sulla giacca del Presidente il giglio d’argento. Nessuno di noi poteva sapere, in quel momento, che due mesi dopo lui stesso sarebbe stato ricevuto dal Sindaco in Palazzo Vecchio, nella sala di Lorenzo. Così chiamata perché lì, Lorenzo il Magnifico riceveva gli ambasciatori che a Firenze venivano dalle terre più lontane.
Quando lasciamo la sede del Parlamento, prendiamo la strada che scende a sud. Dobbiamo raggiungere Sulaymanya. Il nostro minibus è preceduto dal camioncino con i 500 zainetti. Davanti fa da apripista la Toyota con il sindaco di Halabja.
Usciti dalla città, le case diradano. Ogni tanto attraversiamo qualche villaggio. Case fatte di sassi e fango. Lamiere per tetti. E poi le antenne satellitari che sempre ritroveremo anche nei luoghi più sperduti, a volte unico segno di riconoscimento del secolo nel quale viviamo. Poi anche i villaggi scompaiono. Attraversiamo una valle, al centro un torrente che i mezzi guadano. All’intorno un pugno di case, una minuscola moschea con i muri verde pastello. I bambini a giocare sulla strada polverosa, alzano gli occhi stupiti e curiosi al nostro passaggio. Per lungo tempo non ci sono più segni di vita. Le auto s’inerpicano su strade tortuose. Incontriamo un pastore con il suo gregge di pecore. E’ un ragazzo giovanissimo, poco più di un bambino. Delle baracche sono abbarbicate su un tornante. Il sindaco vuole offrirci della frutta. Compra banane e arance per noi. Semi di zucca per l’autista, dei quali gran mangiatore, li sgranocchierà per il resto del viaggio. Arrivati in cima al passo, il corteo affronta le curve della pista che velocemente degradano verso la pianura sottostante. La strada che percorriamo resta l’unico segno della presenza dell’uomo. Montagne brulle intorno. Sotto, la valle fatta di distese di prati spelacchiati.
C’inerpichiamo nuovamente, ora in modo più deciso. Arriviamo a Balessan, uno dei primi villaggi travolti dalla campagna dell’Anfal.
L’intera popolazione ci accoglie sui due lati della strada che raggiunge il punto più alto del paese aprendosi in un piccolo spazio. Qui avviene la breve cerimonia di saluto e la visita del luogo che raccoglie la memoria dell’eccidio. Togliendoci le scarpe, seguiamo i rappresentanti locali nel mausoleo. Una stanza dove, appese alle pareti, si susseguono le fotografie dei morti. Tanti i bambini.
Quando usciamo, siamo circondati da ragazzini, usciti a frotte dalle case. Per loro, l’occasione per trascorrere un attimo diverso dalla routine. Sono belli e dolcissimi, con dei grandi sorrisi che illuminano volti dai lineamenti incredibilmente delicati.
Fulgida tira fuori la valigia che per tutto il viaggio si era tenuta vicino. Escono così piccoli oggetti utili a comunicare. Sono palloncini colorati che Fulgida, Lara e Luciano gonfiano. Sempre più rapidamente, ma non è sufficiente. Nugoli di bambini arrivano, attratti dall’evento inatteso. Dalla valigia, come quella di Mary Poppins, per magia continuano ad uscire i palloncini.

Arriviamo a Sulaymanya che comincia l’imbrunire.
L’hotel Babylon è un palazzo su due piani. Nella hall, davanti al bancone della reception, un abete finto, illuminato delle luci natalizie. La sua funzione è puramente decorativa e dura tutto l’anno.
All’ultimo piano c’è la sala ristorante.
Quando vi arriviamo, depositate le valigie nelle camere, accogliamo con gioia, data l’ora tarda, gli hamburger e le patate fritte che i gentilissimi camerieri ci propongono.
Fra noi italiani, chi conosce meglio la cucina mediorientale è indubbiamente Filippo.
Nell’aspetto, Filippo è il viaggiatore doc. Capelli arruffati, lunghi sulle larghe spalle. La barba, scomposta e folta a incorniciare il sorriso scanzonato. Al collo, immancabili, macchina fotografica e cinepresa.
Ci dà qualche breve consiglio che si rivelerà utile per meglio capire i piatti tradizionali.

Note
Sulaymanya ha più di duecento anni. Sul finire del XVIII secolo diventò la capitale del Principato di Baban. Prendendo il posto della città di Kalacholan.
Jalal Talabani, attualmente Presidente della Repubblica dell’Iraq, è di questa regione. Una vita passata combattendo. Partigiano indomito, nel 1975 fonda il Puk, il partito unitario curdo. Talabani e Massud Barzani, figlio del leggendario Mustafà Barzani e leader del Pdk, il partito democratico, sono i due carismatici politici che guidano il sogno di autonomia del popolo curdo.
A Sulaymanya nel marzo 1991 la popolazione scese in piazza. Migliaia di persone si riversarono nelle strade, prendendo d’assalto le caserme e gli edifici pubblici. Per ultimo fu cinto d’assedio il carcere di massima sicurezza dove venivano torturati e uccisi donne e uomini che credevano in un Paese libero. L’assedio durò più di ventiquattro ore. Poi anche il carcere fu invaso dagl’insorti. Moderna “Bastiglia”, oggi è lì, aperto al pubblico, per non dimenticare.
Subito a nord della città c’è un monte, il Pira Magrun. Come riporta la rivista “Archeologia Viva”, tre anni fa una spedizione del Laboratorio di Assiriologia dell’Università di Pisa arrivò fin qui per trovare conferme alla possibilità che questa sia la montagna del Diluvio Universale, e non l’Ararat come indicato nella Bibbia. L’ipotesi parte dalla rilettura degli scritti assiri, prende in esame i racconti mesopotamici dai quali discendono i testi biblici, per trovare, con la spedizione, conferma nella morfologia del terreno. Un’onda anomala, forse causata da un meteorite. Uno “tsunami” di migliaia di anni fa. Che risalendo controcorrente il Tigri e poi il suo affluente di sinistra, la Diyala, è andato a frangersi contro il Pira Magrun che s’innalza al centro di una valle. Si parla del Diluvio Universale, e non dell’Arca di Noè. Secondo i ricercatori, l’Arca, così come è stata tramandata, non è mai esistita. E’ un mito. E l’Iraq è la terra dove sono nati gran parte dei miti, che poi ritroviamo in tante civiltà.

Halabja
Dalla terrazza sul tetto del Babylon l’alba di Sulaymanya è striata di leggere nebbie che s’alzano lentamente nel cielo grigio. Si prospetta una giornata decisamente calda.
La città è tutta un cantiere. Si viaggia tra dossi e avvallamenti dovuti ai detriti che camion e bulldozer spostano da un punto all’ altro. Il pulmino va avanti scartando qua e là per evitare i lavori in corso.
Di buon’ora prendiamo la strada per Halabja. Correndo verso la periferia est della città, dal finestrino vediamo chilometriche code di “tacsì”, bianchi con la striscia orizzontale arancione. Sono tutti in coda in attesa della benzina razionata spettante a ciascuna autovettura, a prezzo calmierato. Nadhim mi dice che i tassisti dovranno pazientare lunghe ore. Fuori dalle auto ferme, chiacchierano e scherzano tra loro. Sanno che oggi è giorno dedicato al rifornimento di carburante. Ovviamente la benzina viene venduta anche dai privati. Si riconoscono, ai bordi ormai assolati della strada. Si vedono decine di taniche allineate l’una all’altra, in attesa di clienti. Il venditore afferra una tanica ed un grande imbuto, provvedendo a riempire il nostro serbatoio.
Halabja dista settanta chilometri da Sulaymanya. Eppure sono necessarie un paio d’ore per raggiungerla. Innumerevoli i posti di blocco. I peshmerga, una sedia di plastica e un ombrellone per ripararsi dal sole che sta salendo nel cielo azzurro, controllano le auto in transito.

Halabja è stata fino ai primi anni del secolo scorso un Principato autonomo. Dopo la Prima Guerra, con la fine dell’Impero Ottomano e la nuova ripartizione di tutti gli Stati che all’Impero facevano riferimento, andò a far parte anch’essa del Paese che le potenze vincitrici decisero di creare, l’Iraq. Non tenendo conto di un passato millenario. Ma della dislocazione dei giacimenti petroliferi.

Il 16 marzo 1988 era un mercoledì. Nel pomeriggio arrivarono gli aerei. Sganciarono le bombe con i gas chimici. Nell’aria si sparse un odore dolciastro. Che ricordava quello delle mele. Oltre 5000 morti. Uomini, donne, bambini fermati nei gesti della vita quotidiana. Le foto ce li mostrano che sembrano dormire. Come in quei documentari che ricostruiscono la fine di altre comunità, come a Hiroshima e Nagasaki.
A Halabja si nasce ancora con gravi malformazioni.

Arriviamo davanti alla scuola Marzabotto. La città italiana fin dal 1988 ha stretto un Patto d’amicizia con Halabja. Fu costruita questa scuola. E’ sicuramente uno degli edifici più belli del luogo. Qui studiano circa cinquecento bambini. Sulle scale che immettono nella struttura scolastica siamo accolti dalle canzoni di benvenuto dei piccoli studenti accompagnati dalle maestre. I bambini indossano i vestiti della festa. Sono tutti ben acconciati. I maschi presentano la divisa dei capelli demarcata. Le femmine portano, tra i capelli, trecce colorate che le mamme hanno sistemato con cura. Consegnano fiori di plastica, in questa terra che i suoi fiori li ha persi da tempo, a causa degli effetti letali delle armi chimiche sul terreno.
All’entrata un tavolo rotondo è ricoperto di candeline colorate che siamo invitati a spengere. Per terra un bambino, indosso l’abito tradizionale curdo, in testa la kefia a scacchi bianchi e neri.
E’ raccolto in posizione fetale. Un bambolotto racchiuso tra le mani. E’ la rappresentazione del giovane padre di Halabja che fu trovato morto, stringendo al petto la piccola figlia. L’immagine stessa, ormai, della tragedia di questa città e dell’intero Kurdistan iracheno.
Edoardo Masetti, il sindaco di Marzabotto, non ferma le lacrime, mentre ricorda come le due città si trovano unite dalla comune tragedia dell’eccidio dei propri abitanti. Un sentimento che irrompe nella storia. Essere rappresentanti della comunità. Comunità di bambini, di donne e uomini. Nessuno escluso.
Poi, classe per classe, la consegna a ciascun bambino degli zainetti, mentre compunti e incuriositi guardano Edoardo che rivolge loro parole di fiducia in un prossimo futuro di conquistata pace e tranquillità. Con i loro pochi anni possono permettersi di sperarlo. La nostra presenza, per loro, è il segno di un cammino aperto. Per noi un auspicio.

E poi…
Nei giorni successivi avremmo continuato a passare lunghe ore sul nostro scassato Mercedes. A intervallare incontri ufficiali e visite le più varie. Non ho visto Raman lamentarsi. Ha quattro anni. E’ figlio di Gulala e Nadhim. E’ la seconda volta che viene a trovare i nonni. Va detto che Raman non ha voluto essere a meno dei “supereroi”, protagonisti dei cartoni animati che più ama. Si è mai visto un “supereroe” che cede alla stanchezza?
In quei giorni Raman ha giocato spesso con Ara, la figlia dodicenne di Khadir Kareem e con i fratelli di lei. A vederli giocare tutti insieme, ho pensato che questa, forse, sarà la prima generazione che potrà vivere in un Kurdistan libero. Un Paese al quale è riconosciuta identità e storia.
Sul minibus siedo spesso accanto a Renzo. E’ di Cormons, dalle parti di Gorizia. Terra di eccellenti vini bianchi.
I friulani sono persone dai lunghi silenzi e dal cuore in mano. Non so se nel carattere di Renzo c’è il primo di questi tratti. Il secondo certamente. Insieme sul pulmino. E poi la sera a dividere la camera. Io con le mie battute da maramaldo toscano, lui con i suoi salaci sfottò venati d’ideologia.

Nel rimettere i bagagli per tornare a casa, si trova uno zainetto. Uno dei 500. Rimasto chissà come confuso tra altre cose. Fulgida me lo regala. Un ricordo di quei giorni. Lo uso, ora, come “valigetta” per i documenti e gli appunti.

Ci salutiamo. L’impegno è di ritrovarsi da Filippo. Al suo eremo. Un ex casello ferroviario nelle campagne intorno a Venezia. All’interno un grande camino, una libreria che strabocca di libri e cd. E poi il pianoforte, vero compagno dei momenti di solitudine. La rete ferroviaria corre a non più di un metro dalla recinzione del piccolo giardino. All’ombra di un albero, seduti intorno a un lungo tavolo, allietati dalla grigliata di carne e da un buon rosso locale, avremmo estratto dalla memoria i momenti trascorsi insieme. Gettato le basi di nuovi comuni progetti.
Ora quei progetti cominciano a prendere forma. Potrebbero diventare aiuti concreti per un popolo, quello iracheno, affamato di normalità.
Forse torneremo in Kurdistan. E riprenderemo il viaggio alla ricerca di noi stessi.
Lo zainetto verde è con me. Ricordo di un viaggio che ha lasciato la voglia di rivedere amici e luoghi conosciuti in un Paese lontano e bellissimo.

Andrea Misuri

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Alla Campagna dei “Mayors for Peace” il premio MacBride del 2006

5 settembre 2006 Pubblicato da roberto

“IPB offre questo riconoscimento perché i Sindaci che hanno aderito e che aderiranno alla Campagna hanno riconosciuto che le politiche internazionali non possono essere lasciate ai Capi di Stato…” Questa la motivazione, in un certo senso rivoluzionaria, che Cora Weiss Presidente dell’IPB mondiale ha espresso nel conferimento del prestigioso Premio ai membri della Campagna mondiale per il disarmo atomico iniziata nel 1982 dai Sindaci delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. E prosegue: “I Sindaci sono più vicini, rispetto ai governi nazionali, ai miliardi di persone che potrebbero essere obiettivi di un attacco nucleare. Questo premio è pertanto un segno, non solo del nostro rispetto e ammirazione, ma anche nel desiderio che sempre più Sindaci aderiscano alla Campagna, e che essa possa continuare finché le nostre città divengano sicure da ogni bombardamento con armi convenzionali o nucleari”.

Il riconoscimento (una medaglia d’oro forgiata da un famoso artista irlandese) verrà offerto al Mayor di Hiroshima Akiba Tadatoshi, a Helsinki nel pomeriggio del prossimo 8 settembre, nel corso di una cerimonia alla Old Student House, Mannerheimintie, 3.

seanmacbrideIl “Mac Bride Peace Prize” è uno speciale riconoscimento annuale che l’International Peace Bureau, fin dal 1992, centenario della sua fondazione, in memoria di Sean MacBride e della sua opera, premio Nobel per la pace e Presidente di IPB tra il 1974 e il 1985, assegna a una persona od organizzazione che si sia particolarmente prodigata per la pace, il disarmo e/o i diritti umani.
L’attribuzione del riconoscimento è votata dallo Steering Committee dell’IPB, usualmente nei primi mesi dell’anno. I membri dell’IPB sono invitati a inviare suggerimenti e documentazione sui possibili candidati.

Nota: Vedi anche:

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Il Summit di Pianosa

4 settembre 2006 Pubblicato da roberto

logo-convegno-pianosa1.gif“Uno dei più orribili crimini della storia, dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, è sicuramente il massacro della popolazione civile subìto il 16 marzo 1988 dalla città di Halabja, nel Kurdistan iracheno, da parte del regime di Saddam.”.

Inizia così la dicitura esplicativa del volantino che descrive il convegno Insieme per la ricostruzione dell’Iraq svolto il 19 e 20 agosto 2006 all’isola di Pianosa.
Promotori del convegno, IPB-Italia e la “Mayors for Peace”, le Fondazioni Caponnetto e Sandro Pertini, l’importante summit ha visto insieme membri istituzionali e della Sanità italiana - dal Ministero della Salute, dall’Istituto Mediterraneo di Ematologia, dal Comune di Firenze, tanto per dirne alcuni, oltre che i Sindaci di Marzabotto e Campi Bisenzio - e rappresentanti istituzionali del Parlamento regionale del Kurdistan e del governo centrale iracheno.

Non solo Halabja, e non solo aiuti alla popolazione curda: nei numerosi interventi sono stati focalizzati diversi punti di impegno per sostenere il difficile cammino dell’Iraq nella ricostruzione. L’emergenza principale è quella sanitaria, ma le diverse sessioni del summit hanno spaziato anche sui fronti della legalità, della soluzione del conflitto, della ricostruzione delle infrastrutture e lo sviluppo economico, della ricerca di soluzioni per garantire nuovamente la convivenza civile nella ricerca di regole certe e pari opportunità di genere.

A conclusione dei lavori sono state individuate le seguenti 5 priorità (vedasi per i dettagli il documento finale):

1) Soluzione del conflitto/Educazione alla Pace
2) Cooperazione per la salute e servizi socio-sanitari
3) Politiche per la legalità e la democrazia
4) Politiche riguardanti la condizione femminile e le pari opportunità
5) Politiche per lo sviluppo economico

Il presente documento, nella stesura finale condivisa da tutti i partecipanti, sarà presentato a:

- Governo Italiano e Governo Iracheno. In particolare ai Ministri degli Affari Esteri, Salute, Pari Opportunità, Attività Produttive, Pubblica Istruzione.
- Tutti i Sindaci italiani e iracheni aderenti alla Campagna “Mayors for Peace”.

Sono adesso fruibili online i seguenti documenti:

Nota: Il documento originale (formato .DOC) è reperibile qua:
ITA - ENG

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La testimonianza di un Hibakusha

16 agosto 2006 Pubblicato da roberto

Terribile.
Dalla Terza conferenza internazionale per la messa al bando dell’Uranio Impoverito, tenuta a Hiroshima il 6 agosto 2006, la testimonianza di Akihiro Takahashi, sopravvissuto alla bomba atomica ed ex-direttore del Peace Memorial Museum di Hiroshima.

… Se non rispettiamo il diritto internazionale, il mondo non conoscera’ mai pace.
Come abbiamo visto in Iraq, la vittoria, e certamente la pace, non possono essere ottenute con la forza. Dobbiamo dare valore a quanto costruito cosi’ faticosamente dalle nazioni del mondo ed essere determinati a vivere in coesistenza pacifica con gli altri popoli, le altre religioni e le altre culture. Credo fermamente che solo su queste basi possiamo costruire un mondo sicuro e prospero.

La famiglia umana deve affrontare la pesante eredita’ del ventesimo secolo, fatta di guerre, armi nucleari, terrorismo, riscaldamento globale, carestie, profughi, violenze e violazioni dei diritti umani. Se le persone che vivono nel ventunesimo secolo non riusciranno a risolvere questi problemi, il secolo corrente potrebbe essere l’ultimo degli esseri umani sulla Terra. Rafforzo continuamente la mia determinazione a vivere i giorni che mi rimangono su questo pianeta in piena consapevolezza e responsabilita’. E voglio comunicare queste mie convinzioni e aspirazioni a tutti i cittadini del mondo.

Riporto il link al lungo testo, tradotto da Francesco Iannuzzelli:

Leggi tutto dal sito di Peacelink!

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