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Appunti da un viaggio in Kurdistan

21 aprile 2006 Pubblicato da roberto

di Andrea Misuri

APPUNTI DA UN VIAGGIO IN KURDISTAN

Una delegazione dell’Ufficio Italiano dell’International Peace Bureau e della Mayor for Peace è stata nel Kurdistan Iracheno, ospite del sindaco di Halabja, Khidr Karem Aktar.
Vivere dieci giorni in un Paese che conosciamo esclusivamente attraverso le immagini dei telegiornali. Il popolo curdo è attualmente diviso tra Irak, Iran,Turchia e Siria. Forte il desiderio di autodeterminazione. Il sogno, un giorno essere un solo Paese. Proviamo, allora, a dipanare il filo di Arianna delle nostre emozioni.
La delegazione aveva ricevuto l’invito a partecipare, il 16 marzo, alla commemorazione del bombardamento con armi chimiche del 1988 durante il quale, a Halabja, morirono oltre 5.000 civili e ci furono più di 10.000 feriti, su una popolazione di 70.000 abitanti.

Abbiamo visitato anche alcuni di quei 5000 villaggi bombardati tra il 1987 e il 1988. E’ l’Anfal. 182000 le vittime. Desaparecidos. Tutti gli uomini dai 14 ai 70 anni.
Il sindaco di Halabja , Khidr Karem Aktar, 46 anni, personalità forte, i folti baffi che scendono appena sui lati della bocca, al centro di un viso aperto e volitivo. Abiti impeccabili. Il sorriso accattivante. Per noi tutti, riferimento istituzionale costante, in questo viaggio attraverso una terra bellissima e sconosciuta.
Il 15 marzo a Halabja abbiamo visitato la scuola costruita, nel 1998, con i soldi raccolti dagli abitanti di Marzabotto, che avevano versato un’ora di salario. La scuola, per 500 bambini delle primarie, fino ai 12 anni, è composta da una decina di classi. Porta il nome di Marzabotto, così come la via e il quartiere. C è una radicata riconoscenza, a Halabja, verso la città che ha permesso di costruire la scuola. Avevamo con noi zainetti per tutti i bambini.
La visita è proseguita al Mausoleo che ricorda le vittime della strage. Per tutto il Kurdistan, un simbolo della libertà conquistata.
La mattina dopo stavamo per arrivare a Halabja, quando ci ha fermato una telefonata del sindaco. Non potevamo entrare in città.
Era prevista una manifestazione di studenti. Protestavano, accusando il Governo di ricordarsi di Halabja una volta l’anno, il 16 marzo. Chiedevano che, in questa martoriata città, si avviassero gli investimenti economici, da anni promessi e non mantenuti. Per dare visibilità alla manifestazione, avevano deciso che il corteo avrebbe raggiunto il Mausoleo.
C’erano 2/3 mila persone. Manifestanti con il viso coperto hanno attaccato, con le armi, i soldati. Distrutto e incendiato il Mausoleo. Dopo oltre un’ora di battaglia le forze di sicurezza hanno ripreso il controllo della situazione.
Nel frattempo, sulla strada che da Sulaymanya va a Halabja, abbiamo visto transitare due camion. A bordo, le teste di cuoio curde. I kalashnikov in braccio, i passamontagna neri calati sul viso.
Alla fine, 1 morto e 17 feriti. Un bilancio pesante davvero.
La posizione ufficiale del Governo è che fin dal giorno precedente, nella zona erano state notate persone non del luogo. Era stato fermato un curdo proveniente dal vicino Iran che doveva compiere un attentato. Fino al 2003, qui operavano i Ginud (Soldati) Al Islam, poi divenuti Ansar Al Islam, vicini ai fondamentalisti religiosi. Il confine iraniano, a 15 chilometri, corre lungo le montagne Shinerwe, a marzo ancora innevate, che facilitano infiltrazioni.
La commemorazione prevista è stata possibile effettuarla due giorni dopo. Il Consiglio Comunale insieme ai rappresentanti dei familiari delle vittime. I volti di pietra tradiscono una vita dura. Tanti lutti alle spalle. E davanti, un futuro difficile. Prende la parola anche Najmadin Muhamad Amin, geologo. E’ il Presidente del Consiglio Comunale. Le sue parole, di grande sobrietà, ci ricordano, ancora una volta, il dramma quotidiano di questa città.
Poi la cerimonia al cimitero. Il cimitero delle vittime dei bombardamenti chimici. Tante, tantissime lapidi. Allineate, una accanto all’altra, tutte uguali. Una per ogni famiglia, con i nomi delle persone scomparse. Cimitero senza morti. Perché i morti furono raccolti in fosse comuni, lì accanto. Una Spoon River mai cantata da nessun Edgar Lee Masters. La deposizione di una corona di fiori di carta, in una terra che non ha fiori.
Incontro Arass, dell’Halabja Chemical Victims Society. Una trentina d’anni, alto, il corpo incredibilmente magro. Il naso grande sopra un bel paio di baffi sul viso allungato. Mi stringe forte la mano. Mi guarda negli occhi. Il suo è uno sguardo infinitamente addolorato. Interrogativo. Vuol sapere se non dimenticheremo. Improvvisamente lo vedo abbassare gli occhi. Abbandonarsi al ricordo delle persone care scomparse nell’eccidio. Nessuna famiglia ne è immune. Un novello inviato di Erode, quel giorno, entrò in tutte le case di Halabja.

E se la strage di Halabja una sua sinistra notorietà, a livello internazionale, l’ha raggiunta, cosa dire del silenzio a lungo calato sulle stragi di Balessan e Shek Wassan.
Per 72 ore gli aerei bombardarono con armi chimiche questi villaggi e successivamente le montagne, verso il confine vicino, dove era stato previsto, come infatti accadde, che i fuggiaschi avrebbero cercato rifugio. I feriti che cercavano di raggiungere gli ospedali, catturati, vennero sepolti vivi.
E mentre i responsabili del villaggio ci raccontano tutto questo, i bambini accorrono dai vicoli, attratti dai palloncini colorati che abbiamo portato e che Fulgida, Lara e Luciano stanno gonfiando a tempo di record.

Erbil è la capitale. Con oltre 5.000 anni di storia è considerata la città più antica del mondo. E’ qui che si è sviluppata la civiltà dei sumeri.
Il Kurdistan, ottenuta l’autonomia politica, si suddivide in tre Province. Le principali, a nord la provincia di Erbil, a maggioranza PDK. A sud quella di Sulaymanya, governata dal PUK. I governanti locali, che potrebbero corrispondere ai nostri assessori regionali, sono chiamati ministri.
Il Parlamento è di 105 deputati. Vi sono rappresentate anche minoranze etniche e religiose, tra le quali quella cristiana copta. In Parlamento le quote rosa raggiungono percentuali elevate.
Fin dal giorno del nostro arrivo abbiamo avuto l’opportunità di incontri con le autorità centrali e locali.

Abbiamo incontrato una decina di sindaci di città e villaggi della Provincia di Sulaymanya.
I sindaci, per quel che abbiamo compreso, svolgono un ruolo da noi rappresentato, in parte, dai prefetti. Infatti hanno anche compiti di ordine pubblico, in una quotidianità sempre a rischio di attentati.
Realtà sociali spesso molto diverse tra loro, con profonde disuguaglianze, che aumentano a dismisura appena usciamo dalle sterminate metropoli di 800/900 mila abitanti, tipiche del Medio Oriente, come Erbil e Sulaymanya, e ci si addentra tra le montagne brulle, verso il confine con l’Iran, dove si vive di pastorizia e dove le abitazioni sono casupole di pietra con i tetti di fango.
Gli incontri avvengono nelle sedi dove i sindaci svolgono la loro attività istituzionale. Palazzine a un piano. Stanze spesso disadorne. L’indispensabile dei tempi di guerra. Sui tavolini, sempre il cesto della frutta. Ti offrono il caffè nero speziato, in minuscole tazze colorate. E il tè bollente, nei tipici bicchieri mediorientali di provenienza turca. In un angolo, la televisione. Sempre accesa, sottofondo costante dei nostri incontri istituzionali. Fuori, polvere e soldati armati, raccolti a gruppi, o seduti per terra, a chiacchierare. O acciambellati sopra le camionette scoperte, a fumare. In attesa di un nemico. Moderna Fortezza Bastiani. Ma qui, i soldati non aspettano l’arrivo dei misteriosi nemici dal nord del deserto dei Tartari. Qui il pericolo può nascondersi ovunque.

Abbiamo visitato l’ospedale di Emergency di Sulaymanya, attivo dal 1998, dove si curano le vittime delle mine. Quasi dieci milioni sparse sulle montagne. Di fabbricazione in gran parte italiana. Il periodo di degenza è di sei mesi. L’ospedale non ha soltanto lo scopo di preparare le protesi per sostituire gli arti mancanti, insegnando ai pazienti ad utilizzarle. Svolge anche un ruolo fondamentale aiutando il reinserimento sociale di queste persone. Qui i ricoverati imparano un mestiere. D’altro canto, in buona parte erano pastori, perché è sulle montagne che sono seppellite le mine. I corsi per gli uomini sono per falegname, fabbro, calzolaio. Quelli per le donne sono di cucito.
Sempre a Sulaymanya siamo stati alla Facoltà di Medicina. L’incontro con il Dr. Nazar Mohammad Amin. Intorno, gli studenti. Ci vogliono ricordare quando scoppiò la guerra, e la popolazione si rifugiò sulle vicine montagne. Gli studenti, con il loro insegnante, indossarono il camice bianco per curare i feriti ed insieme imbracciarono il kalashnikov per difendere l’Università dalle scorrerie dei fondamentalisti religiosi. Qui vengono curati i bambini che ancora oggi, figli di chi subì i bombardamenti chimici, nascono con gravi malformazioni.

L’incontro più importante, con Mrs. Hero Ahmed Talabani moglie del Presidente della Repubblica dell’Iraq, Jalal Talabani. Mrs. Talabani, un donna minuta, gli occhi vividi, i capelli corvini che scendono appena sulle spalle. Ex partigiana, presiede l’associazione Kurdistan Save the Children Children’s Fund, da lei fondata nel 1991. Si occupa dell’infanzia abbandonata. Sono più di 2800 le adozioni a distanza già realizzate.
Con Mrs. Talabani abbiamo parlato delle conseguenze delle stragi con le armi chimiche compiute 18 anni fa. Dovranno trascorrere 3 o 400 anni prima che il terreno e le acque non siano più contaminati. Il problema è che non si conosce ancora la composizione esatta di queste armi. Gli agenti chimici usati erano una miscela di iprite e di gas asfissianti nervini, tra i quali sarin, tabun e VX. I sopravvissuti, di quel giorno, ricordano soltanto l’odore dolciastro nell’aria. Gli unici, in Occidente, che hanno studiato l’argomento, sono gli specialisti dell’Università di Liverpool. L’appello che Mrs. Talabani ci ha rivolto, è di comunicare al mondo questa tragedia. Di non lasciarli soli. C’è la necessità di avviare una ricerca sulle conseguenze di contaminazioni chimiche di seconda generazione.

Andrea Misuri ha partecipato alla missione di pace nel Kurdistan iracheno ed è stato latore del messaggio che il Sindaco di Firenze e vicepresidente della Campagna “Mayors for Peace”, Leonardo Domenici, ha inviato al Sindaco di Halabja.

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Halabja, una Hiroshima del Kurdistan dimenticata del mondo

27 marzo 2006 Pubblicato da roberto

di Shorsh Surme*
* giornalista curdo-iracheno

Volentieri pubblichiamo questo testo, che è in parte la trascrizione di quanto nel video cortometraggio è stato descritto riguardo la strage nella cittadina di Halabija.
Il video che è stato consegnato nelle mani del Sindaco di Halabija, al ministro dell’Università e alla biblioteca dell’Università di Suleymanya, è stato doppiato da una versione inizialmente in italiano che era stata prodotta per la mostra multimediale itinerante “La lunga ombra del sole di Hiroshima”. E’ importante e significativo questo intreccio tra le vicende drammatiche di Hiroshima, Nagasaki e Halabija, protagonisti ed epoche possono variare, ma gli effetti rimangono sempre gli stessi…

La popolazione curda oggi celebra il diciottesimo anniversario dal bombardamento con armi chimiche sulla città di Halabja, nel Kurdistan dell’Iraq, da parte del regime di Saddam. I morti furono 5000 mila e i feriti più di 100.000. Molti di questi sono stati abbattuti come animali dalle squadre di morte capeggiate dal criminale Ali “il chimico” cugino di Saddam per nascondere ogni traccia di questo massacro.

Il 16 marzo 1988 era un pomeriggio di primavera, la cittadina era quasi interamente coperta dal verde, quando i bombardieri iracheni invadono il cielo di Halabja, città di 70.000 abitanti della provincia di Suleymania nel Kurdistan iracheno, a pochi chilometri dalla frontiera iraniana.

Il giorno precedente, la città era caduta nelle mani dei partigiani
dell’Unione patriottica del Kurdistan (Upk) di Jalal Talabani. Abituata alle alterne offensive e controffensive nel conflitto Iraq-Iran che devastavano la regione dal settembre del 1980, la popolazione crede sulle prime che si tratti di una classica operazione di rappresaglia. Chi fa in tempo si mette al riparo in rifugi di fortuna. Gli altri sono sorpresi da bombe chimiche che, a ondate successive, Mirage e Mig iracheni gli rovesceranno addosso.

Un odore nauseante di mele imputridite riempie Halabja. Al calar della notte, le incursioni aeree cessano e comincia a piovere. Poiché le truppe irachene hanno distrutto la centrale elettrica, gli abitanti partono alla ricerca dei loro morti nel fango, alla luce delle torce. L’indomani, si trovano di fronte a uno spettacolo spaventoso: strade lastricate di cadaveri, persone sorprese dalla morte chimica nei loro gesti quotidiani: bambini tenuti per mano dal padre, neonati ancora attaccati al seno materno, gli anziani che cercavano di passare una giornata serena e i malati che speravano di guarire. In poche ore si sono avuti 5.000 morti di cui 3.200 verranno tumulati in una fossa comune perché nessuno ha potuto reclamarli: i familiari erano tutti morti.

Le immagini di questo massacro fanno il giro del mondo grazie a corrispondenti di guerra iraniani e la stampa internazionale che si reca sul posto e dà un certo spazio a questo avvenimento senza precedenti. Il fatto è che l’uso di armi chimiche è formalmente proibito dalla convenzione di Ginevra. Dal 1925 soltanto l’Italia di Mussolini ha infranto questo divieto nella guerra d’Abissinia. Ma stavolta è contro il suo stesso popolo che uno stato usa i gas chimici. Allora l’Occidente - che considerava Saddam un’alleato, ma soprattutto il paladino della libertà contro l’espansionismo Khomaynista nel Golfo Persico - si limitò a una timida protesta senza una condanna esplicita contro il regime dittatoriale iracheno.

La città di Halabja vive ancora con i terribili ricordi di quella tragedia, nel territorio della città non cresce più un filo di erba, le donne che erano state colpite con il gas non riescono avere più i figli e se possono averne nascono deformati. Ora, la speranza di migliaia dei parenti delle vittime di quella tragedia in particolare e del popolo curdo in generale è che i responsabili che per fortuna sono già dietro le sbarre possono essere processati e giudicati al più presto possibile per crimini che hanno commesso contro la popolazione civile.

E non dimentichiamo anche i mercanti di morte che hanno collaborato col regime per realizzare questa arma micidiale. Infatti, due mesi fa è stato condannato Frans van Anraat un Olandese di 65 anni, che la magistratura olandese ha definito come “uno dei più importanti intermediari del traffico d’armi e materiale bellico del Medio Oriente”. Van Anraat si era trasferito in Iraq dopo la prima guerra del Golfo dove, sempre secondo i magistrati olandesi, avrebbe svolto il ruolo di consulente per lo sviluppo delle armi chimiche del regime di Saddam. E’ stato riconosciuto colpevole di complicità in crimini di guerra ed è stato condannato dal tribunale dell’Aja a 15 anni di prigione.

Nota: Dalla redazione di www.panoramakurdo.it

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Verso il rientro, e con risultati positivi, la delegazione dei sindaci nel Kurdistan

23 marzo 2006 Pubblicato da roberto

E finalmente sembra che sia arrivato il momento di partire!
Mai dare date precise, tutto e’ in forse come tante cose quaggiu’, bisogna un po’ vivere alla giornata in un Paese che, pur con la regione curda in assoluta autonomia e quindi slegata dalle vicende della guerra e dell’occupazione statunitense, subisce tuttavia gli echi e i timori di quanto accade poco piu’ a sud. E questo e’ quanto e’ successo: l’aereo che gia’ il 21 avrebbe dovuto riconsegnarci all’Europa, all’aeroporto di Erbil non e’ neanche mai atterrato: spazi chiusi, ufficialmente per il capodanno curdo, in verita’ per il timore di attentati nella coincidenza delle due date - il Newroz, appunto, con le ipotesi di azioni da parte dei gruppi sciiti in verita’ assai in minoranza qua, e l’anniversario dell’arrivo degli Yankee in Iraq; oltre alle incognite della situazione internazionale dovute all’inasprirsi della crisi sul nucleare in Iran.
Poi l’attentato c’e’ stato, non nel Kurdistan pero’ e non su un volo; ma ugualmente ha acceso anche qua qualche timore.

Quale il risultato della mission? Sotto tutti gli aspetti direi positivo.
Eravamo partiti come delegazione di sindaci, quello di Marzabotto in testa visto il gia’ esistente gemellaggio tra la citta’ e Halabija il cui frutto e’ da qualche anno stato concretizzato dalla costruzione di una scuola, e assieme all’IPB-Italia, l’ufficio italiano dell’International Peace Bureau che ha promosso nel nostro Paese la Campagna Mayors for Peace, ha svolto importanti momenti di contatto ad alto livello: con sindaci delle citta’, con ministri del governo autonomo, con la moglie del Presidente iracheno Talabani con la quale si sono definiti degli accordi per l’aiuto umanitario e di possibile cura delle vittime “di seconda generazione” della strage di Halabija: quelle che hanno subito i tremendi effetti genetici delle sostanze chimiche che nel 1988 hanno investito i propri genitori.
Luciano Scambiato del gruppo “Students” di IPB-Italia ha svolto proficui momenti di contatto con studenti di Halabija e dell’universita’ di Suleymanya.
Nel palazzo del Parlamento curdo si e’ arrivati alla firma di una dichiarazione congiunta di impegno sulla messa al bando delle armi chimiche in tutto il mondo, documento che verra’ presentato al Presidente della Repubblica Ciampi, alle Nazioni Unite e ad altri.
In piu’ il contatto con la gente, e qui soprattutto due persone tra noi hanno avuto il merito di avere diffuso, con la propria grande umanita’, la consapevolezza che neanche le incomprensioni nella lingua sono un ostacolo nell’accettazione spontanea delle persone: Fulgida Barattoni la presidente dell’IPB-Italia, con la sua spontaneita’ verso i bambini a cui ha gonfiato innumerevoli palloncini e offerto sorrisi e abbracci, e Andrea Misuri delegato del rappresentante del sindaco di Firenze Domenici, che si puo’ ben dire abbia importato nel Kurdistan la tipica gestualita’ e comicita’ toscana. Ma con il contorno di tutti i membri della squadra, ciascuno di noi aveva compiti che sono stati svolti con entusiasmo e grande professionalita’.

Adesso il rientro. Se tutto va bene saremo a Francoforte alle 18 ora dell’Europa centrale. Poi un volo per l’Italia, probabilmente domani la mission tocchera’ di nuovo il suolo italiano.
Nel sito associativo www.ipb-italia.org saranno a breve pubblicati i vari comunicati stampa che via via erano stati diramati nel corso delle giornate. Ma il lavoro proseguira’, la mission e’ stata soltanto l’inizio, un momento di acquisizione della realta’ di un popolo con cui abbiamo voluto condividere momenti di impegno e di intensa commozione, e momenti di gioia spontanea. Una mission diplomatica pero’ fatta di persone, che ha voluto incontrare altre persone.

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Dal Kurdistan, dalla mission dei Sindaci per la pace

17 marzo 2006 Pubblicato da roberto

Un diario di viaggio con le impressioni e una breve cronaca di quanto stiamo vivendo qua. In diretta da Suleymanya, Kurdistan iracheno.

Dovunque si trovi memoria degli orrori di una guerra, di uno sterminio, quel luogo dovrebbe essere mostrato al mondo, e i suoi significati diffusi con tutti i mezzi. Anche se l’uomo mai ha imparato a fare tesoro del suo passato, chissà che la conoscenza ripetuta dei fatti non porti prima o poi maturità nel suo vivere!
E’ il pensiero ricorrente in questi giorni intensi di viaggio, quasi da ambasciatori per incontri diplomatici e non, al seguito dei “Mayors for peace”, i sindaci per la pace, piccolo gruppo di rappresentanti italiani dei cittadini in visita nel Kurdistan iracheno.
Halabija cittadina meta della missione, su invito del proprio sindaco per le celebrazioni dell’anniversario della strage - 5000 curdi uccisi dai gas chimici nel 1988, si era al termine della guerra Iran-Iraq, primo esperimento di sterminio con armi non convenzionali operato da Saddam contro la comunità che vive sull’altopiano.

Martedì 14 di primo mattino, in arrivo nel Kurdistan. Partiti la sera del 13, Forlì-Francoforte e poi Francoforte-Erbil in un volo di linea settimanale e affollato.
Erbil al centro della regione, città cantiere dalle mille sorprese, che mostra a scacchiera via via che procediamo segni di ricercata bellezza architettonica o di edilizia cittadina, inframmezzati a case diroccate o in costruzione; e ad esempio colpisce a un certo punto l’immagine improvvisa di una graziosa e complessa fontana dai mille zampilli d’acqua, attorniata però da campi incolti e da lotti di terreno divelto.
Sarà invece Suleymanya la nostra base. Città moderna ma anch’essa a chiazze di cantieri oltre come sempre a sobborghi caratteristici. Da Erbil a mezza giornata di viaggio, tra strade statali di cui non ti puoi fidare (ed essenziale è l’esperienza del guidatore per schivar buche e prevedere improvvisi dossi) e poi arrancando per una carrareccia tortuosa e lunga che percorre a saliscendi l’altopiano. L’altezza media è sugli 800 metri e proprio per questo non c’è il caldo che ti opprime. Il terreno è brullo però, e solo verso il confine montagnoso con l’Iran oltre all’erba più fitta si scorgono finalmente coltivazioni e alberi da frutto.
Il giorno 15 arriviamo nella cittadina. Festosissima accoglienza nelle scuole dove i bambini ricordano con noi la ricorrenza, con manifestazioni sceniche e cori, e dove più che il discorso valgono lo sguardo e i sorrisi. Visitiamo le classi e distribuiamo tra tutti i bambini gli oggetti di uso scolastico che abbiamo portato per loro.
Halabija qui è città simbolo delle atrocità commesse da Saddam e immagine di ciò che le armi chimiche possono produrre, in termini di sofferenza umana e di distruzione. Nel mausoleo eretto alla memoria, il percorso del visitatore si snoda per diverse prospettive: da uno scenario dell’evento ricostruito in grandezza naturale, alle tante immagini dei costumi sociali e della resistenza curda fino ad arrivare alla documentazione visiva della strage: i cadaveri in pose familiari, bambini abbracciati alla mamma, esseri che sembrano dormire, infine gli oggetti che i morti portavano con sé - quasi un monito da parte delle cose rimaste, a ricordare chi invece venne ucciso all’improvviso.
L’emozione è grande, le immagini che vedo sono gli stessi documenti su cui per mesi si e’ lavorato - assieme ai testi delle convenzioni internazionali in tema di divieto nell’uso delle armi non convenzionali - per la produzione di un cortometraggio video a testimonianza dell’evento e destinato alle scuole di grado superiore, e di cui copia è stata offerta al sindaco della cittadina e al ministro dell’Università della regione.
Ci si rende conto di non essere qui per caso: nei tanti avvenimenti del mondo, la propria presenza è importante per testimoniare - se non ti fai vedere non esisti, è un punto fermo della società multimediale. In questo caso l’esistenza di un popolo pacifico e differente dagli stereotipi che danno dell’Iraq - e del Medio Oriente in generale - un’immagine monolitica di pericolosa “diversità”, e il concetto molto semplice che la gente, qualsiasi lingua parli e a qualsiasi Dio si affidi, desidera sempre soprattutto una cosa: la vita in pace e la sicurezza per il futuro dei propri figli.
Altro monumento alla memoria ci attende, di nuovo a Suleymanya. Entriamo nel carcere che vide torturare e uccidere gli oppositori politici di Saddam della regione. 182 mila morti o scomparsi che sono ricordati attraverso il passaggio di ingresso, un tunnel tortuoso con incastonati alle pareti, appunto, 182 mila pezzetti di specchio, che riflettono in modo drammatico la luce di cinquemila piccole lampadine sul soffitto, simboleggianti il numero dei villaggi distrutti.
Al termine del percorso si entra nel vivo del ricordo. Alle pareti di tante stanze sono appese fotografie spesso atroci, di persone uccise, cadaveri insanguinati, persone in fuga. In una stanza è appeso per le mani un manichino raffigurante un uomo che viene torturato con la corrente elettrica, i fili attaccati con pinzette in vari punti della pelle.
Si passa per le celle dei prigionieri; sul pavimento gli stracci usati per coperte, alle pareti spesso i segni della sofferenza. Medito paragonando ciò che vedo con le immagini famose dei campi di sterminio nazisti, una differenza sta nella scarsa conoscenza attuale delle stragi della popolazione curda (ed e’ anche per questo che siamo qua), un’altra sta nel breve tempo trascorso da quando il popolo curdo ha ritrovato pace: questo significa che chi visita il luogo ha ben viva la presenza della sua storia recente, e nel viso dei visitatori l’emozione è profonda.
La visita ha seguito quella, in questo caso più in positivo, a due centri di riabilitazione per chi ha perso gli arti spesso a causa delle mine; si tratta di persone a cui non vengono solo ricostruite le gambe ma anche la forza di reagire e l’apprendimento di un’occupazione. Rimane lo sgomento per ciò che le mine - armi ormai proibite ma ancora disseminate qua e là tra le zone teatro di tante guerre - continua a provocare; e nessuna descrizione o trattato sulla pace potrà dare più forza persuasiva del vedere con i propri occhi lo sforzo e la soddisfazione drammatica di un uomo che riesce di nuovo a camminare, gli arti inferiori entrambi sostituiti da protesi artificiali.

Nei teatri di guerra nel mondo si continua a uccidere sperimentando anche armi sempre più efficaci. Nel cuore e nelle menti di tanti di noi si continua a lottare, lavorando per un mondo senza guerre.
Siamo in tanti? Ancora in pochi? In ogni caso continueremo a remare. Dall’Iraq, nella piccola isola di precaria pace che è tuttora il Kurdistan, un grosso abbraccio e una spinta a uno slancio sempre maggiore per avvicinare alla realtà il nostro ideale.

Nota:
Le celebrazioni del 16 e 17 marzo sono state sospese a seguito di disordini dovuti a numerosi manifestanti che hanno occupato il mausoleo di Halabija. Negli scontri con le forze di polizia si contano un morto e alcuni feriti. La delegazione dei sindaci italiani è stata avvertita e ha dovuto modificare il proprio itinerario e il programma. La giornata del 16 è stata quindi utilizzata per incontri con alcuni esponenti della politica curda e con la popolazione di alcuni villaggi.

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IPB – Italia sarà ad Halabija per le commemorazioni dell’eccidio kurdo del 1988

10 marzo 2006 Pubblicato da roberto

Una delegazione dell’ufficio italiano dell’International Peace Bureau sarà nelle province del Kurdistan Iracheno il 16 e 17 marzo per ricordare la terribile strage compiuta con armi chimiche dal regime di Saddam Hussein sulla popolazione civile.

Il 16 e 17 marzo ogni anno si tiene a Halabija, cittadina del Kurdistan iracheno al confine con l’Iran, una cerimonia di commemorazione delle vittime della strage operata nel 1988 da Saddam Hussein, dove morirono 5000 persone per effetto delle bombe chimiche.

IPB-Italia ha risposto con entusiasmo all’invito rivolto dal Sindaco di Halabija, Jamil A. Mhamad, e alcuni membri dell’Associazione saranno presenti assieme ad alcuni Sindaci italiani aderenti alla Campagna “Mayors for Peace” per presenziare alla cerimonia e per diverse altre iniziative culturali ed umanitarie.
Il nostro viaggio sarà ricco di impegni: presenteremo i nostri video cortometraggi prodotti in occasione della nostra “Mostra fotografica itinerante” e doppiati in lingua Kurda; visiteremo delle scuole dove i bambini leggeranno le nostre “Favole per la pace” anch’esse tradotte nella loro lingua; incontreremo varie realtà istituzionali e amministrative; saremo all’ascolto di quanto ci racconteranno le famiglie delle vittime di quella strage. Porteremo segni di solidarietà e di vicinanza ad un popolo che è “minoranza” seppure numerosa nelle Nazioni cui la propria terra è stata frammentata.

Ritorneremo arricchiti della certezza di essere umani tutti, con simili sogni e simili aspettative. Con desideri di vita nella pace, per noi stessi e per le generazioni che ci seguiranno.

Documenti e comunicati stampa:

Videoclip correlati (link creati a posteriori):

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